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la marcia su roma


fiatuno1988

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Il 22 ottobre 1922 Mussolini aveva già pronto il proclama per il momento dell'insurrezione. Gli mancava solo una prova per verificare la possibilità di spostare un numero sufficiente di uomini per ferrovia, concentrandoli alle porte di Roma. A questo scopo aveva una quinta colonna in una posizione chiave nel governo Facta: Vincenzo Riccio, responsabile delle Ferrovie dello stato. Riccio acconsentì a fornirgli i treni necessari a trasportare le camicie nere.

Mussolini decise di convocare i fascisti a Napoli per un congresso da tenersi il 24 ottobre, quale prova generale della marcia su Roma. Là sperava di saggiare la reazione delle autorità romane alla sua offerta di assunzione del potere.

A Napoli arrivò poco dopo la mezzanotte del 24 ottobre, accompagnato dai tre fedelissimi Marinelli, Bianchi e Acerbo. Alla stazione c'erano ad attenderli due quadrumviri, Balbo e De Bono, eccitatissimi, che li accompagnarono all'albergo Vesuvio per preparare la marcia su Roma. La prima parte del piano stava funzionando bene. C'era stato qualche dubbio sulla situazione dei treni, ma Riccio, come promesso, aveva ormai consegnato i treni speciali che stavano arrivando senza incidenti da tutte le parti d'Italia.

Il teatro San Carlo era stato decorato con bandiere fasciste e vessilli. Quando Mussolini, che indossava camicia e pantaloni neri e ghette grigie, fece il suo ingresso, un trombettiere suonò l'attenti: i capi fascisti e i notabili napoletani intonarono Giovinezza! "Noi fascisti" disse Mussolini poggiando le mani sui fianchi e sollevando la testa "non intendiamo arrivare al potere dalla porta di servizio ... ". Le camicie nere con il petto ricoperto di medaglie sollevarono i loro elmetti della Grande Guerra. "Noi fascisti non intendiamo rinunciare alla nostra formidabile primogenitura d'ideali per una miserabile porzione di minestra ministeriale".

Nel pomeriggio circa sessantamila fascisti guidati dai loro gerarchi sfilarono per le vie di Napoli spazzate da una pioggia sottile. Nella luce declinante del crepuscolo, con un ultimo raggio di sole che illuminava le nuvole scure, Mussolini parlò alle milizie fasciste radunate nell'enorme piazza. "Io vi parlo con tutta la solennità richiesta dal momento; o ci daranno il governo, o ce lo prenderemo calando su Roma. Non è questione di giorni, ma di ore. " Mussolini portava di traverso sulla camicia nera una splendida fascia con i colori giallo-rossi di Roma. A poco a poco riecheggiò per tutta la piazza un coro ritmato: "Roma! Roma! Roma!".

Quella notte, nella camera dell'albergo Vesuvio, Mussolini informò i suoi generali sugli ultimi dettagli del piano operativo. Alla mezzanotte tra il 26 e il 27 il comando sarebbe passato al quadrumvirato, cui tutti i fascisti avrebbero dovuto prestare obbedienza senza discutere. Alla mezzanotte tra il 27 e il 28 si sarebbe proceduto alla mobilitazione dell'intera milizia con l'ordine di impadronirsi degli edifici pubblici delle principali città italiane, ovunque fosse stato possibile. Contemporaneamente tre colonne di uomini si sarebbero concentrate nei punti di partenza della marcia vera e propria: a Tivoli, una trentina di chilometri a est della capitale, sulla via Tiburtina; a Monterotondo, sulla via Salaria, poco meno di 50 km a nord di Roma; a Santa Marinella, sulla via Aurelia, 56 km a nordovest di Roma.

Il mattino del 28 ottobre le tre colonne avrebbero dovuto marciare sulla capitale per obbligare Facta a rassegnare le dimissioni, consentendo a Mussolini di prendere il potere con un governo dominato dai fascisti. Ma gli ordini erano categorici: evitare gli scontri con l'esercito regolare; le camicie nere avrebbero dovuto dimostrare tutta la loro simpatia e il loro rispetto verso tutte le truppe regolari che avessero incontrato.

Mussolini era sicuro che la minaccia di una guerra civile avrebbe provocato una crisi di governo, consentendo al re di costituire un nuovo esecutivo a forte partecipazione fascista, compresi almeno sei ministri in camicia nera. La riunione all'albergo Vesuvio di Napoli si concluse senza particolari cerimonie: solamente poche strette di mano e qualche parola d'incoraggiamento pronunciata da Mussolini.

Si convocarono i capi regionali per consegnare loro gli ordini della mobilitazione segreta. L'Italia fu divisa in due zone, ciascuna agli ordini di un comandante di provate capacità militari. Ogni comandante ebbe venticinquemila lire e il saluto "Arrivederci a Roma".

I comandanti avrebbero avuto molto da fare in tempi strettissimi: era necessario un grande sforzo per radunare i reparti della milizia fascista in tutte le zone del paese, soprattutto nel Sud; si doveva organizzare la cavalleria, creare i reparti della Croce rossa, costituire un sistema di rifornimenti, diffondere appelli per arruolare personale essenziale, come i cucinieri.

Alle due del pomeriggio del 25 Mussolini partì da Napoli alla volta della capitale. Là, in attesa del treno della notte per Milano, egli avrebbe portato avanti la cospirazione consultandosi con parecchi personaggi chiave giunti alla stazione Termini per parlare con lui.

Facta convocò una riunione del consiglio dei ministri, la maggior parte dei quali si oppose alle sue dimissioni; soprattutto Taddei, ministro della Guerra, che disse che l'esercito era del tutto pronto ad affrontare qualunque assalto fascista. Soleri, ministro dell'Interno, garantì al governo che la polizia era pronta ad arrestare i capi fascisti in tutto il paese. Invece di rassegnare le dimissioni, i ministri rimisero i loro dicasteri a disposizione di Facta, suggerendogli di fare tutto il possibile per resistere alla minaccia fascista.

Facta telegrafò a Vittorio Emanuele di ritornare al più presto nella capitale. Alle otto di sera del 27, scendendo dal treno a Roma, il re era di pessimo umore. Mostrò la sua irritazione e l'impazienza ai ministri di Facta venuti ad accoglierlo, rimproverandoli per aver permesso un tale deterioramento della situazione. A quel punto Vittorio Emanuele ribadì che Roma doveva essere difesa a tutti i costi. Nessun fascista in armi sarebbe dovuto entrare nella capitale.

Rinfrancato dalla fermezza del re, il governo sembrò deciso a resistere ai fascisti. Si piazzarono reticolati di filo spinato e postazioni di mitragliatrici nei punti strategici della città, si mise l'artiglieria pesante in postazione alle porte e in corrispondenza dei ponti sul Tevere, cavalleria e autocarri armati di mitragliatrici stazionavano intorno al palazzo reale e al ministero dell'Interno. I prefetti ebbero l'ordine di tenersi pronti ad arrestare i capi fascisti.

Verso mezzanotte le notizie che giungevano al ministero dell'Interno cominciarono a farsi allarmanti: nell'Italia centrale le prefetture e le stazioni ferroviarie erano prese d'assalto dai fascisti, soprattutto a Firenze, Pisa e Perugia, dove le camicie nere erano entrate in azione in anticipo.

Preoccupato da questi sviluppi, Facta si precipitò da Taddei, al ministero della Guerra. Decisero di affidare ai militari il controllo dell'ordine pubblico, a partire dalle 12.30 meridiane del 28. Per proteggere Roma sarebbero state minate le linee ferroviarie presso i maggiori centri in prossimità della capitale, come Chiusi, Orte e Civitavecchia.

Facta andò quindi dal re con la bozza della dichiarazione dello stato d'assedio e di un proclama rivolto al popolo italiano, nel quale il governo affermava "il suo compito supremo di difendere lo stato a tutti i costi, con qualunque mezzo, contro chiunque violasse le leggi".

Facta tornò al ministero dell'Interno con l'approvazione del re e dichiarò che sarebbe rimasto al suo posto a costo della vita. "Questa è una rivolta" esclamò. "Dovremo schiacciarla." Quindi convocò una riunione del consiglio dei ministri da tenersi alle cinque del mattino presso il ministero dell'Interno, al Viminale. Cominciò a cadere una pioggia leggera.

A Milano Mussolini stabilì il quartier generale dell'insurrezione nei suoi uffici del Popolo d'Italia, dove aveva accumulato la carta da giornale per le edizioni speciali. Altre bobine di carta da giornale erano accatastate tutt'intorno all'edificio, formando barricate per la guardia armata formata da squadristi.

Un centinaio di chilometri a nord di Roma, nella città di Perugia, il quadrumvirato di Balbo, De Bono, De Vecchi e Michele Bianchi aveva stabilito il proprio quartier generale all'albergo Brufani, un edificio di mattoni rossi ornato di colonne situato nella piazza principale vicino alla prefettura. A mezzanotte del 27 il quadrumvirato emanò gli ordini per la mobilitazione generale della milizia fascista.

Molti tra i massimi gradi dell'esercito, tra i quali il maresciallo d'Italia Armando Diaz (cui si attribuiva la paternità della vittoria italiana nella Prima guerra mondiale), dichiararono immediatamente il loro appoggio alla causa fascista. Il duca d'Aosta, comandante della 3a armata e viceré sul campo in tempo di guerra, giunse a Perugia per tenersi in contatto con l'alto comando fascista.

Cinque generali dell'esercito regolare - Fara, Ceccherini, Magiotto, Zamboni e Tiby - assunsero il comando delle varie colonne fasciste che dovevano marciare alla volta di Roma da Civitavecchia, Valmontone, Monterotondo, Mentana, Tivoli e Santa Marinella. A partire dalla mezzanotte le forze fasciste erano ovunque in movimento. Sulle camicie nere di cotone, lana o seta indossate su calzoni e scarpe dell'esercito erano stati appuntati cordoncini dorati. Inquadrati in colonne con borracce, zaino e coperte arrotolate sulle spalle, i fascisti erano armati in modo eterogeneo con schioppi, fucili, rivoltelle, pugnali, bombe a mano e manganelli. Altri reparti erano stipati su autocarri scoperti forniti dall'esercito, mezzi a quattro ruote con cabine di guida scoperte che sobbalzavano pesantemente sulle strade polverose strepitando con i loro clacson.

I treni furono sommariamente requisiti, al personale delle ferrovie da uomini della milizia fascista. Sui vagoni fu tracciata alla meglio la scritta “A ROMA”, oltre all'onnipresente motto "Me ne frego" e ai nomi delle squadre. Uomini in camicia nera si sporgevano dai finestrini dei vagoni agitando i gagliardetti.

I fascisti che non si trovavano sui treni o sulle strade, erano occupati ad assaltare gli edifici pubblici delle città occupando e presidiando le stazioni ferroviarie, gli uffici postali e telegrafici, le armerie, quasi sempre con il consenso delle autorità locali.

Per tutta la notte e nelle prime ore del mattino affluirono al ministero dell'Interno telegrammi che riferivano i nomi delle città e delle prefetture occupate dai fascisti o delle guarnigioni militari che fraternizzavano con le camicie nere.

Alle cinque del mattino il governo Facta si riunì al ministero dell'Interno, al Viminale. Il generale Cittadini, aiutante di campo del re, dichiarò che se non fosse stato proclamato lo stato d'assedio il re avrebbe abdicato, abbandonando il paese.

Perciò si decise di dichiarare lo stato d'assedio alle ore 12 del 28. Ma nessuno sapeva come formulare il decreto, per cui si iniziò una ricerca affannosa per trovare una copia dell'ultimo decreto del genere promulgato. Alle 7.10 del mattino i prefetti e i comandanti militari ebbero l'ordine di usare qualsiasi mezzo per impedire ulteriori occupazioni di edifici pubblici e di arrestare i capi e i promotori dell'insurrezione.

Quaranta minuti più tardi fu inviato a tutti i prefetti d'Italia un telegramma che annunciava l'entrata in vigore dello stato d'assedio a partire dal mezzogiorno del 28.

In città fu vietato tutto il traffico non militare, le truppe pattugliavano le strade principali e vennero creati cordoni intorno alla periferia della capitale.

Nei dintorni di Perugia, sede del comando del quadrumvirato, le truppe dell'esercito regio accerchiarono la città, pronte a eseguire ogni ordine. Nella sala da biliardo dell'albergo Brufani i quadrumviri avevano srotolato le carte della campagna sui panni verdi dei tavoli, seguendo le posizioni delle truppe fasciste. Quando, poco dopo le 20, giunse loro la notizia dello stato d'assedio, nella sala calò un doloroso silenzio. Alle nove del mattino del 29, Luigi Federzonì, l'unico nazionalista del gruppo, telefonò a Mussolini a Milano per chiedere istruzioni. Gli fu detto che il Duce avrebbe accettato qualunque decisione il quadrumvirato avesse preso.

Ormai anche Milano, nonostante il prefetto filofascista, era saldamente nelle mani dell'esercito. Mussolini poteva circolare solo con il consenso delle forze armate che pattugliavano le strade. A un certo punto il prefetto Lusignoli fu costretto perfino a informare Mussolini che avrebbe potuto trovarsi nell'obbligo di arrestarlo.

Al ministero dell'Interno Facta era ancora in riunione con il suo governo, tentando ripetutamente di raggiungere il re per telefono. Vittorio Emanuele era stato avvicinato dai generali Dìaz, Pero e Giraldi. Questi erano riusciti a convincere il re che in caso di conflitto armato con i fascisti, l'esercito avrebbe compiuto il suo dovere, ma che forse sarebbe stato più saggio non metterlo alla prova e che non era certo che avrebbero accettato di sparare contro gli ex compagni d'arme, guidati da generali dell'esercito coperti di medaglie.

Il re era ormai deciso a non rischiare né il trono né la guerra civile. Ripeté a Facta che sarebbe stato impossibile impedire l'occupazione di Roma senza ricorrere alla guerra civile, e che molte province erano già cadute in mani fasciste.

Con uno storico dietrofront, il re rifiutò di firmare il decreto di stato d'assedio che Facta aveva preparato.

Alle 11 il governo al completo rassegnò le dimissioni. Alle 11.30 un comunicato ufficiale annunciò che lo stato d'assedio era stato revocato.

Alla notizia della revoca, i fascisti di Roma cominciarono a raccogliersi davanti al palazzo del Quirinale per applaudire il re. Le camicie nere si spostavano stipate sugli autocarri sotto la pioggia sottile e ordinavano agli abitanti della città di issare il tricolore su tutti gli edifici. Le camicie nere e le camicie azzurre dei nazionalisti correvano per le strade aggrappate alle automobili aperte pigiando il clacson, mentre distaccamenti di fascisti giungevano a passo di marcia con il braccio teso nell'antico saluto romano, cantando Giovinezza! Si formò una folla di gente che osservava e commentava.

A Milano Mussolini pubblicò un comunicato in edizione straordinaria del Popolo d'Italia, nel quale dichiarava che la maggior parte dell'Italia centrale e settentrionale era nelle mani dei fascisti, che avevano occupato le prefetture e le stazioni.

Alle 16 il rappresentante monarchico di Mussolini, De Vecchi, si recò dal re. Increspando le labbra, il sovrano chiese al quadrumviro fascista se avrebbe accettato una soluzione Salandra con quattro ministeri per i fascisti. Quando Federzoni riuscì a comunicare telefonicamente con Milano, Mussolini spiegò che non aveva alcun senso mobilitare decine di migliaia di camicie nere solo per formare un governo Salandra.

Il re, che aveva letto il testo delle intercettazioni compiute dai censori sulle conversazioni telefoniche tra Mussolini e le sue coorti, sapeva come stavano realmente le cose e incaricò il generale Cittadini di inviare il seguente telegramma: " Sua Maestà il re Vittorio Emanuele III vi prega di venire immediatamente a Roma. Egli intende offrirvi l'incarico di formare un nuovo governo".

Mussolini aveva le valigie già pronte.

Il Duce del Fascismo si diresse all'imponente stazione Centrale di Milano indossando un cappotto grigio nuovo, con ghette e bombetta grigie. Era la sera del 29 ottobre e pioveva ancora. Gli strilloni vendevano le edizioni straordinarie dei giornali con titoli a tutta pagina che annunciavano la caduta di Facta.

Mussolini stringeva sotto braccio un libro sulla vittoria italiana a Vittorio Veneto nella Grande Guerra: intendeva donarlo al re.

Migliaia di persone si erano raccolte nella stazione e negli immediati dintorni. Qualcuno lanciò dei fiori e gli ammiratori si sporsero dalle carrozze degli altri treni per guardare e applaudire Mussolini che si dirigeva verso l'espresso per Roma. Il fratello di Mussolini, Arnaldo, guidò una moltitudine di fascísti milanesi verso il vagone letto mentre Mussolini rispondeva ai saluti delle camicie nere in servizio sul treno e diceva al capo stazione: "Voglio partire in perfetto orario. Da oggi in poi tutto deve funzionare come un orologio".

Il mattino del 30 il treno entrò a Civitavecchia. Centinaia di persone intonarono Giovinezza! I gerarchi fascisti, allineati lungo il marciapiede, urlarono: "Per Benito Mussolini, eia eia, alalà!", un saluto ripreso dai legionari fiumani di D'Annunzio, che il poeta diceva fosse stato il saluto dei seguaci di Enea al loro capo.

Sulla campagna si stendeva una nebbia sottile e fredda. Mussolini si cambiò nello scompartimento, indossando abiti presi a prestito: i pantaloni neri con le bande e la giacca a coda di rondine richiesti dal protocollo, che egli indossò sopra la camicia nera e le ghette bianche trattate con talco.

Alle 10.30 il treno entrò nella vecchia stazione romana di Termini, dove lo attendeva una limousine reale.

Nel palazzo del Quirinale il piccolo re in alta uniforme, completa di sciabola, era in attesa di salutare il nuovo primo ministro. Giunto alla presenza del sovrano, Mussolini si inchinò e strinse la mano regale: " Porto a V. M. l’Italia di Vittorio Veneto, riconsacrata dalle nuove vittorie. Vostra Maestà voglia perdonarmi se mi presento indossando ancora la camicia nera della battaglia che fortunatamente non c'è stata. Io sono un suddito fedele di Vostra Maestà".

In quello stesso pomeriggio Mussolini formò il suo governo. Alle 19.30 portò l'elenco dei ministri al re.

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eh gia la benzina a certe parti e arrivata a 2euro e 6 centesimi ! manco fosse la w power che costa di meno ! eppure a detta di certa gente dicono che noi oggi viviamo meglio piu coccolati e piu spensierati e liberi e piu ricchi di 70 anni fa ! beati loro che vivono bene che dire forse vivono in un mondo tutto loro o siamo noi dei pazzi " maggiorazna della popolazione " che vive da cani !

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